Racconti

 Cornacchia

Perché si tende a scordare i ricordi dell'infanzia?

Perché i ricordi dell'infanzia risultano spesso così sfuocati e quasi sepolti nella profondità del tempo?

Perché ricordiamo solo, o meglio prevalentemente, le vicende che ci riportano i nostri genitori? 

Sembra che nella nostra memoria si formino più facilmente delle immagini che il tempo distorce fino a renderle difficilmente ricostruibili.

E' anche possibile che il cervello abbia la necessità di creare nuovo spazio per il presente e questo comporti di dover archiviare nell'Oblio i vecchi files, accantonando, in una sorta di disco fisso, tutto quello che non è utile per la quotidianità, senza preoccuparsi di quanto belle siano talvolta le immagini e i ricordi del nostro passato. Sembra che il cervello si comporti come uno spazzaneve che si preoccupa di tenere pulite le strade per il transito delle auto e non si cura delle difficoltà che i cumuli di neve formano ai lati.

Mentre scrivevo queste elucubrazioni, da quell'oblio che ho citato poco fa, è comparsa una figura dai contorni poco chiari ma che poi, avendomi incuriosito, mi ha riportato ad un periodo molto particolare della mia infanzia e all'amicizia inusuale con una cornacchia, un animale di quasi mezzo metro con una apertura alare forse di un metro, un metro e dieci. 

Il suo ricordo si è delineato ancor meglio mentre, dalla finestra di un ospedale, osservavo la neve che cadeva lenta e fitta, in modo non dissimile dalla straordinaria nevicata, con temperature a meno venti gradi, che me la portò via. 

La sua immagine mi è apparsa inizialmente molto vaga: i suoi colori? Non li ricordavo: forse era grigia, forse nera.Poi tutto è diventato più nitido: era la mia Cesira, una bellissima cornacchia grigia. Mio padre mi raccontava spesso che da ragazzo, con i sui amici, ad ogni fine primavera era bel gioco catturare animali selvatici, soprattutto uccelli, per addestrarli. Alla fine degli anni settanta, gli prese un'irresistibile voglia di rivivere uno dei suoi ricordi giovanili più cari, così come talvolta si rileggono all'indietro le pagine di un libro per gustare di nuovo gli argomenti migliori. 

All'inizio di un'estate, quando avevo poco più di otto anni, mio padre arrivò a casa con la Cesira chiusa dentro un sacco di tela.

Così la chiamai fin da subito per la simpatia che mi provocava con quell'aria fiera e determinata, tipica di quelle donne di campagna di una volta che, dalle nostre parti, chiamavano in dialetto razdora. La cornacchia avrà avuto 5-6 settimane di vita. Mio padre aveva individuato alcuni nidi lungo il fiume Guerro e con un suo amico aveva seguito l'ovulazione di questi uccelli per allevarli e, dopo 4-5 settimane, si era verificata una schiusa di 6 uova che avevano diviso tra di loro. Poi ne restituì due per mancanza di spazio e tenemmo la Cesira che era la più bella. A pian terreno, in un angolo, costruimmo una gabbia con tutto l'occorrente per mangiare e bere e adattarsi alla mia famiglia. Io le portavo spesso delle graminacee che mangiava avidamente, ma mangiava di tutto, anche l'erba: bastava che le facessi roteare davanti al naso qualcosa che lei me la strappava di mano. Le diedi anche degli insetti ma, com'era giusto per la sua razza, divenne molto ghiotta di macinato. Le piaceva talmente tanto che era arrivata a spiegarmi, alla sua maniera, se la qualità era buona o mediocre. Se giudicava il pasto non di suo gradimento,  disgustata dondolava la testa e lo risputava come fanno i bambini quando fanno le bizze. Così me la prendevo con mia madre che, volendo risparmiare su tutto, le riservava gli avanzi peggiori, come la cotica di prosciutto o la parte più rancida, che indubbiamente non potevano essere un granché. Quando capii tutto ciò, le polpette della mamma finirono nel pattume e alla Cesira davo la carne buona del macellaio di fronte. Dopo alcune settimane di questo rapporto tra me, mio padre e la Cesira, venne il momento di collaudare il suo affiatamento in famiglia. La Cesira era diventata davvero molto bella, aveva raggiunto le sue dimensioni massime e, quando apriva le ali forse per salutarmi, aveva un che d'impressionante. Pensavo che con quelle ali avrebbe potuto andare ovunque, persino sulla Luna e le dicevo: <<quando ti faremo uscire, ti insegneremo a volare e dovrai andare sulla Luna a vedere cosa c'è nella parte perennemente coperta.>>. Le spiegavo tutte queste cose e pareva capisse. Una domenica mattina mio padre si procurò una fascia di cuoio spesso, che avvolse intorno alla mano sinistra, poi legò una zampetta della Cesira ad una corda di circa dieci metri e iniziarono le lezioni di volo. Non ci vollero molti esperimenti perché sapeva benissimo cosa fare: il suo problema era capire come evitare gli ostacoli.

Ora i ricordi sono ancora più nitidi. Mio padre la lanciò in aria senza la corda e lei volò subito verso i pioppeti del Panaro. Volò così lontano che pensai di averla persa. Improvvisamente sentii qualcosa di pesante sopra i capelli, era la Cesira: a suo modo mi stava dimostrando il suo affetto. Con delicatezza sfilò dolcemente una spilla fermaglio che mia madre solitamente mi metteva su un lato, per evitare che i capelli mi coprissero gli occhi e la mise dove a lei pareva essere più logico: effettivamente, guardandomi allo specchio, mi sentii più carina.

In quello stesso anno ci fu un inverno polare che seccò perfino un grosso cedro del Libano in prossimità della piazza del paese. Per la Cesira era la sua seconda casa: appollaiata su uno dei rami, gracchiando ai passanti, vi trascorreva le ore che io passavo a scuola, spaventando con le sue enormi ali i bambini. L'inverno fu davvero glaciale, a meno venti.

Una nevicata eccezionale me la portò via; la vidi sparire tra i pioppi del fiume, da dove era venuta. Non tornò più. Passai giorni incollata ai vetri della finestra, con la disperazione nel cuore, sperando che tornasse: l'avrei scaldata davanti al camino come facevo con i piedi. 

Ripensando a questi ricordi che sono riemersi così nitidi oggi, capisco l'importanza che ha l'oblio nella nostra memoria e la sua funzione di archiviare il passato, per far spazio al presente e attenuare così, gradatamente, anche le emozioni più forti, quelle che se non venissero accantonate renderebbero ingestibile la nostra vita. Questo meccanismo, però, non significa che abbiamo perso per sempre il nostro passato: basta una piccola provocazione, come la nevicata che oggi osservavo stando dietro i vetri della finestra, per farne emergere uno tra i più cari, ridando la stessa freschezza emotiva a un episodio dei miei otto anni.

[Racconto scritto dalla figlia di Silvano]